Ciao.
Grazie per essere capitata qui.
Nelle volte scorse abbiamo parlato di cittadinanza attiva, di rabbia che scuote e muove mondi, di come lo spazio pubblico non sia ancora di tuttə e di come il prezzo della “partecipazione” ricada, quasi sempre, sugli stessi corpi.
Corpi che disturbano, che non stanno al loro posto.
Corpi che osano parlare, occupare spazio, esistere fuori dalla cornice stabilita.
Ecco, oggi parliamo di quei corpi.
Ma da dentro.
Perché anche il corpo in sé è uno spazio politico. Lo è quando viene controllato, violato, normato, ma lo è anche — e soprattutto — quando viene curato… o non curato affatto.
La medicina, che ci piace immaginare neutrale, oggettiva, scientifica, è in realtà una delle prime forme di istituzione che ci classifica, ci ordina, ci riduce a categoria. È lo sguardo clinico che decide cosa è “normale” e cosa è “deviante”. Chi merita ascolto, e chi no. Guarda caso, quel corpo normale ha un’identità ben precisa: maschio, bianco, cisgender. Tutto il resto è "eccezione", "variazione", "anomalia". Se il corpo è il primo luogo in cui viviamo, non esiste cittadinanza attiva senza diritto alla cura. Non esiste vera partecipazione se il sistema sanitario ti ignora, ti fraintende, ti “patologizza” o ti fa ammalare di trascuratezza.
La rabbia, allora, non nasce solo quando veniamo escluse dalla piazza. Nasce anche sul lettino di un medico che non ci ascolta. Nelle diagnosi sbagliate, nei farmaci testati solo sugli uomini, nei dolori che ci dicono di sopportare.
La rabbia nasce quando capiamo che anche nella scienza, anche nella cura, il potere si distribuisce ineguale.
E se la medicina non è neutra, allora curarsi diventa un atto politico.
Prendersi cura l’una dell’altra, ancora di più.
Questo è il filo che unisce tutto: la partecipazione, la rabbia, la cittadinanza.
Perché se il mio corpo non è previsto, allora la mia presenza non è prevista.
E io non accetto di essere un’assenza.
Sarà un po’ lunga, ma necessaria.
Iniziamo.
La medicina è un terreno neutrale?
L’anatomia umana è universale, giusto? Così, su due piedi, ci verrebbe da rispondere “Sì, certo! Che domande”. Un cuore è un cuore, un polmone è un polmone. Ma se ti dicessi che la medicina ha sempre avuto un solo corpo di riferimento? Maschio, bianco, cisgender. Tutto il resto è stato considerato un’appendice, una variazione, un'alterazione. La pelle se non è bianca non è pelle. Fin dai primi studi di anatomia, il corpo umano che contava era quello dell’uomo bianco. Verrebbe da chiedersi: Perché? E te lo dico.
Perché chi scriveva i libri era bianco, maschio, europeo (ne parliamo dopo). Le prime dissezioni avvenivano su cadaveri di criminali (rigorosamente maschi) o su corpi non reclamati (spesso persone povere, marginalizzate). L’idea che il corpo femminile o quello di altre etnie potesse essere studiato a sé stante semplicemente non esisteva.
Questa idea non è mai morta. Per secoli la medicina ha considerato il corpo femminile come una variazione mal riuscita di quello maschile. Galeno, medico dell’antichità, sosteneva che la donna fosse un uomo “invertito”, con organi riproduttivi interni invece che esterni perché non aveva abbastanza "calore" per svilupparli correttamente. Un piccolo errore di calcolo che ha influenzato la medicina per secoli.
Risolviamo il problema con un esperimento mentale: immaginiamo di riscrivere la medicina con il corpo femminile come standard e quello maschile come variazione. Suonerebbe assurdo, vero?
Eppure, questo è quello che è stato fatto con le donne per secoli.
Il corpo giusto per la medicina sbagliata
Dimmi, tu lo sai che le persone nere hanno i nei?
Ti sembra una domanda stupida? Lo è.
Quando mi è stata posta, mi è sembrata la domanda più assurda che potessi sentire in vita mia. Poi, ho realizzato che non me lo ero mai chiesta. Che, forse, in realtà non lo sapevo. Mi sono sentita un po’ stupida. Ma sai cos’è ancora più stupido?
Che la medicina non lo sappia. E non solo non lo sa: se ne frega. Perché il corpo nero, nella storia della medicina occidentale, è sempre stato l’eccezione, mai la norma.
E allora ecco il paradosso: se una persona nera ha un melanoma, spesso i medici non se ne accorgono. Perché? Perché i libri di dermatologia mostrano solo foto di melanomi su pelle bianca. Un po’ come cercare di riconoscere un lupo vedendo solo immagini di barboncini. Sai qual è la conseguenza? Diagnosi tardive, trattamenti inefficaci, vite perse. Ma, ehi, il sistema funziona!
Solo che non funziona per tutte le persone.
Il razzismo scientifico ha giocato un ruolo enorme nel mantenere il corpo bianco come riferimento. Nel XIX secolo, con il colonialismo e la tratta degli schiavi, nasce l’idea che le persone non bianche abbiano corpi diversi, quasi appartenenti a una specie inferiore. Samuel George Morton, medico e antropologo, raccoglie teschi da tutto il mondo e misura la loro capacità cranica. La sua conclusione? I bianchi hanno cervelli più grandi e quindi sono più intelligenti. Peccato che le sue misurazioni fossero manipolate per confermare i pregiudizi dell’epoca.
Nel frattempo, la medicina americana sviluppava la teoria che le persone nere fossero biologicamente predisposte alla schiavitù perché meno sensibili al dolore e più resistenti alla fatica. Un’idea che ancora oggi si riflette nei trattamenti sanitari: studi dimostrano che ai pazienti neri vengono somministrati meno antidolorifici rispetto ai bianchi con gli stessi sintomi. Nel mentre, nessuno studiava le malattie sulla pelle scura. Nessuno studiava le variazioni genetiche che influenzano il metabolismo dei farmaci nelle popolazioni asiatiche. Nessuno si chiedeva come funzionasse la menopausa nelle donne latine. Perché?
Perché erano dati irrilevanti.
Se una persona bianca è in carenza di ossigeno, si controllano le unghie delle dita.
A una persona nera? No. Bisogna guardare le guance per capire se si trova in carenza. Quante persone lo sanno? Quanti medici, lo sanno? Ecco.
Ti sembra poco?
Prova a pensare di soffocare silenziosamente mentre continuano a guardare dalla parte sbagliata.
Da brava ragazza di trent’anni vorrei ricordare la morte di Derek in Grey’s Anatomy. Quando lui, esperto neurochirurgo, si rende conto che non lo stanno visitando nella maniera corretta. Perché le persone che si stanno prendendo cura di lui non hanno esperienza, sono di fretta. Ecco. Peccato che non stiamo parlando di danni celebrali per incidenti gravi. Stiamo parlando di nei, di egzemi, di soffocamento, di tantissime cose banali alle quali non riusciamo nemmeno a pensare e che, in alcuni – molti – casi, fanno la differenza nella diagnosi e nella cura.
Ma non è solo una questione di pelle. È il cuore che batte troppo in fretta e ti dicono che è ansia. È il dolore che urla e ti dicono che sei troppo sensibile. È la tua vita che vacilla e ti dicono che stai esagerando. Perché la medicina non è mai stata neutrale. È bianca, è maschia, è cisgender. E se non rientri in questo schema, sei un’anomalia.
L’infarto femminile che sembra ansia
Immagina di essere una donna, di sentire un peso sul petto, una nausea che ti assale, vertigini che ti fanno barcollare. Forse pensi sia stress, forse pensi sia qualcosa che passa con un po’ di riposo. Ma non è così. Vai al pronto soccorso, decisa a capire cosa ti sta succedendo, e il medico ti guarda con aria paterna, quasi consolatoria, e ti dice: "Sarà ansia, signora, si rilassi". Ti sente dire che il tuo cuore sta cercando di dirti qualcosa, ma è come se nessuno ti volesse ascoltare. E il fatto è che, nella sua mente, il cuore che ti sta dando segnali non è il cuore di una donna. E nemmeno quello di una persona che, forse, ha solo una storia diversa dalla norma, da quella che è stata costruita come “standard”.
Facciamo un test. Se ti chiedessi quali sono i sintomi di un infarto, cosa risponderesti? Dolore al petto,
oppressione toracica,
dolore che si irradia al braccio sinistro,
sudorazione fredda.
Tutto corretto. Peccato che questi siano i sintomi tipici negli uomini.
E nelle donne? Spesso l’infarto si presenta con nausea, affaticamento, dolore alla schiena o alla mandibola, difficoltà a respirare. Segnali che vengono scambiati per ansia, influenza o stress. Diagnosi tardiva = meno possibilità di sopravvivenza.
Ti sembra un errore da poco? Ti sembra un dettaglio trascurabile?
Un esempio drammatico arriva dal Regno Unito, dove uno studio ha rivelato che le donne hanno il 50% in più di probabilità di morire di infarto entro un anno dalla diagnosi, rispetto agli uomini. E questo non è un errore da poco, non è un dettaglio trascurabile. È la vita di una persona che viene messa in secondo piano. E per cosa? Perché si è costruita una medicina che non ha mai preso in considerazione la specificità del corpo femminile. Le linee guida cliniche hanno, fino ad oggi, ignorato le diversità fisiologiche tra uomini e donne, e questo porta alla mancata cura e a un'alta mortalità tra le donne.
Il punto è che l'infarto, per secoli, è stato visto come una condizione prevalentemente maschile. L'idea che una donna possa soffrire di infarto, con sintomi atipici rispetto a quelli maschili, è una realtà ignorata, non riconosciuta, invisibile. Ma perché?
Perché la medicina ha costruito il suo sapere su un corpo maschile. Gli studi clinici, i protocolli, le raccomandazioni sono basati su corpi bianchi, maschi e cisgender. E se una donna non corrisponde a questa definizione, allora i sintomi vengono ignorati, minimizzati o addirittura ridicolizzati.
Il dolore delle donne è sempre troppo poco
Ma non è solo l’infarto ad essere un esempio. È una storia che si ripete in tanti ambiti della medicina. Perché il dolore femminile ha sempre avuto una storia particolare. Una storia che ha radici profonde nella nostra cultura, nella percezione che la società ha della donna. La donna che soffre è “normale”. Il dolore fisico femminile è sempre stato, per così dire, “accettato” come parte dell’esperienza femminile, come un dato biologico e sociale con cui convivere.
A che prezzo?
Prendiamo il caso del dolore mestruale. Per generazioni, alle donne è stato detto che il dolore mestruale è “normale”. Nessuno le ha mai prese sul serio quando lamentavano il dolore, o peggio, le hanno liquidate con diagnosi banali come "irregolarità ormonale" o "stress". Il dolore delle donne, in generale, è stato ridotto a un qualcosa di ciclico, di prevedibile, da sopportare. E in questo processo, il dolore fisico delle donne è diventato quasi invisibile, una parte che non destava attenzione, una “condizione naturale” da ignorare. Anche quando le donne soffrono in modo acuto, la medicina spesso minimizza. Prendiamo l’endometriosi. Una malattia che affligge circa il 10% delle donne in età fertile, eppure spesso viene diagnosticata in ritardo, quando la situazione è già avanzata, e le donne passano anni a chiedere aiuto senza ricevere una risposta adeguata. Come mai? Perché il dolore mestruale è stato accettato come parte dell'esperienza femminile. L’endometriosi, una patologia invalidante, è stata troppo spesso ignorata o confusa con “un semplice mal di pancia”. E ancora oggi, le donne vengono talvolta derubricate come “esagerate” quando lamentano dolori forti, o peggio, vengono trattate con leggerezza, come se il loro dolore non fosse davvero valido.
Endometriosi. Ovaio policistico. Dolori mestruali che ti spezzano in due. Se sei una donna e hai mai detto a un medico che il dolore ti sta divorando, hai probabilmente sentito una di queste frasi:
"È normale, tutte le donne hanno dolore mestruale."
"Forse sei un po’ stressata."
"Hai provato a rilassarti?"
Ora, prova a immaginare un uomo che si lamenta di un dolore ai genitali e il medico gli dice: "Guardi, succede a tutti gli uomini. Si rilassi". Sarebbe ridicolo, vero? Eppure alle donne succede ogni giorno. Perché il dolore femminile è stato storicamente ridotto a "isteria". Si chiama patriarcato, ma in ospedale lo chiamano "protocollo".
Questa minimizzazione del dolore delle donne non è un fenomeno recente. Ha radici nella storia del patriarcato. La storia della medicina, infatti, è costellata di esempi di come le donne siano state ignorate nei contesti di salute, e di come la loro sofferenza fosse considerata qualcosa da sopportare, non qualcosa da trattare. Se guardiamo a "medicina" come disciplina, notiamo che la figura femminile è sempre stata subordinata: la donna è stata vista come un corpo che partorisce, che è destinato a soffrire fisicamente in quanto parte di un ordine naturale e biologico.
Questo discorso non è solo legato al dolore fisico. La medicina storicamente ha considerato le donne anche come “deboli” dal punto di vista emotivo e psicologico.
L’ “isteria”, ad esempio, era una diagnosi che veniva attribuita alle donne che esprimevano qualsiasi tipo di emozione fuori dal comune. La risposta, come nel caso del dolore fisico, era sempre la stessa: si minimizzava, si spiegava come un eccesso di emozione, un “incapacità di gestire il corpo e la mente” che non riguardava la realtà della condizione.
Le conseguenze di questa storicizzazione del dolore femminile sono devastanti. La mancanza di attenzione al dolore fisico delle donne porta a diagnosi tardive, trattamenti inefficaci, e in casi estremi, a morte prematura. Le donne che soffrono di dolore cronico, che viene trattato con superficialità o con diagnosi errate, rischiano di vedere le loro condizioni peggiorare senza che nessuno le ascolti. Il caso dell’infarto è solo la punta dell’iceberg, ma lo stesso schema di invisibilità e minimizzazione si ripete in innumerevoli altri contesti, dalle malattie autoimmuni alla fibromialgia, dalle disfunzioni ormonali alla salute mentale.
Riconoscere la differenza nei sintomi tra uomini e donne, trattare la sofferenza femminile con la serietà che merita, non è solo una questione di equità, ma una questione di vita o di morte. È tempo che la medicina, nella sua totalità, smetta di ignorare il corpo della donna, il dolore della donna. La medicina deve ascoltare la voce delle donne, non trattarla come una disturbante imperfezione della norma. Perché ogni vita ignorata è una vita che potrebbe essere salvata.
Il paradosso del bambino nero
e il bambino bianco
Ora immagina una scena che potrebbe essere accaduta milioni di volte nelle sale d'attesa degli ospedali: un bambino nero che ha l'appendicite e un bambino bianco che ha lo stesso disturbo. C’è una sola differenza: uno riceve subito un antidolorifico e l'altro no. E sai cosa? Le probabilità sono alte che sia il bambino bianco a riceverlo per primo. Perché? Perché il suo dolore è “più visibile”, più "legittimo". Il bambino nero, invece, è messo nella categoria di quelli che "possono resistere". Il dolore, per lui, è una prova di forza. Un piccolo rituale di sopportazione che nessuno mette in discussione.
E, intanto, il sistema sanitario perpetua una narrazione disumana. Non è solo una questione di trattamento medico; è una questione di valore della vita. Il medico, inconsciamente, assegnando più antidolorifici a un bambino bianco, sta dicendo che la sua sofferenza è più meritevole di attenzione. Il bambino nero, d'altra parte, è trattato come se potesse sopportare la sofferenza senza esserne troppo disturbato. Eppure, la verità è che entrambe le vite meritano la stessa attenzione. Ma l’etichetta sociale, che ancora oggi vede il corpo nero come “forte” e capace di sopportare tutto, ha il potere di silenziare la sofferenza di chi lo vive.
La violenza sistemica nella medicina
Le convinzioni razziali che permeano il sistema sanitario non sono solo un errore umano. Sono un sistema di violenza che si manifesta ogni giorno, ogni volta che un medico decide che il corpo nero può sopportare di più, che il dolore della persona nera non è tanto urgente. Questo è il frutto di una storia che non è mai stata messa in discussione. E l'unico modo per fermare questa spirale di ignoranza e brutalità è denunciare apertamente queste convinzioni, portando alla luce la verità invisibile, quella che ci dicono di ignorare.
La medicina non è mai stata neutrale. E, come tutte le istituzioni, deve essere continuamente messa in discussione. Ogni volta che una vita umana viene trattata come meno importante, ogni volta che qualcuno è privato della cura che merita, l’ingiustizia non è solo un errore: è una violenza sistemica. E questa violenza, purtroppo, ha un volto. Quel volto è stato costruito da decenni di pregiudizi, razzismo e sfruttamento. La medicina deve rivedere tutto, dalla base. Fino a quando non lo farà, continueremo a parlare di disuguaglianze che devastano vite.
La medicina non è neutrale.
Perché la cultura non lo è.
Se ti dicessi che la medicina è politica, mi guarderesti con gli occhi di chi ha appena sentito un’assurdità? Forse alzeresti un sopracciglio, convinto che il “fare la medicina” sia un atto puramente tecnico, scientifico, obiettivo. Ma la verità è che la medicina non è mai stata neutrale. E non lo è mai stata, perché non esistono scelte neutrali quando si tratta di decidere quali corpi curare e come. Chi decide quali sintomi sono degni di attenzione? Chi decide chi merita cure immediate e chi può aspettare, come se il suo corpo fosse un oggetto di scarsa importanza? Chi scrive i protocolli, stabilisce le linee guida e fa i test clinici? Sono persone, e come tali portano con sé la propria storia, la propria cultura, le proprie convinzioni.
La medicina è intrinsecamente legata alla società che la produce. Non è un universo a parte, e tanto meno neutrale. Piuttosto, è un riflesso crudo e diretto della cultura in cui viviamo. E se quella cultura è sessista, razzista e binaria, lo sarà anche la medicina. Chi sono i corpi che hanno il diritto di essere salvati? Chi sono i corpi che vengono considerati “meno urgenti”, che ricevono cure meno efficaci, che vengono ignorati o liquidati come "resistenti al dolore"? La risposta è chiara, e non ha nulla a che fare con la scienza. Ha a che fare con chi è in grado di dettare la definizione di “norma”.
Chi scrive la medicina? Uomini bianchi, e basta. Non è un caso se la maggior parte delle ricerche scientifiche si basa su uomini bianchi. Non è una svista, né una casualità. I test clinici, le ricerche sui farmaci, le sperimentazioni, sono per la maggior parte condotti su corpi maschili bianchi, perché quelli sono considerati "universali", "normali", l'archetipo umano per eccellenza. Un esempio concreto: le malattie cardiovascolari. È stato dimostrato che molti studi scientifici sulle malattie cardiache si concentrano prevalentemente su uomini bianchi, a scapito delle donne e delle minoranze etniche. Perché? Perché i corpi bianchi maschili sono quelli che determinano gli standard, che stabiliscono ciò che è "normale". Quando si tratta di trattare le malattie, le linee guida mediche non sono mai state scritte tenendo conto delle differenze di genere, razza o identità. Perché mai dovrebbero farlo, se il corpo bianco è sempre stato il gold standard, quello da cui tutto parte?
E non è solo una questione di etnia o di genere. Le persone trans sono tra le più trascurate dalla medicina tradizionale. Non c'è ricerca scientifica, non ci sono protocolli, non c'è una rete di cura che tenga conto della loro specificità, delle loro necessità. Le persone trans si trovano, spesso, ad affrontare la medicina come se fosse un terreno ostile, dove le risposte che cercano non esistono. Dove il loro corpo, la loro identità, sono trattati come se fossero un errore di sistema, un’anomalia che la medicina non è ancora pronta a comprendere.
Medicina, cultura e giustizia sociale. La medicina è politica. Lo è, eccome. E non può essere neutrale. Quando trattiamo un corpo, stiamo trattando non solo un organismo, ma un essere sociale, e ogni trattamento medico si inserisce in un contesto sociale e culturale. E in questo contesto, la medicina non è mai stata equa. Le disuguaglianze che vediamo oggi nei trattamenti sanitari non sono un errore casuale, sono il risultato di una lunga tradizione di discriminazione razziale, di genere e sessuale.
La cultura in cui siamo cresciuti non è neutrale, e neanche la medicina lo è. Abbiamo creato un sistema che premia alcuni corpi e ne penalizza altri, e questo non è un caso. È un riflesso di come la società in cui viviamo decide chi merita di essere curato e chi merita di essere ignorato. E se il sistema sanitario non cambia, non avremo mai una vera giustizia sociale. La medicina, quindi, non è solo un campo di studi scientifici. È una battaglia culturale, che richiede di ripensare completamente il modo in cui concepiamo la salute, la cura, il dolore e la vita.
Quando si parla di cura, si parla di umanità. E se la medicina non è in grado di riconoscere che tutti i corpi meritano la stessa attenzione, la stessa dignità, e la stessa cura, allora stiamo perdendo una battaglia che non possiamo permetterci di perdere.
Quindi? Che si fa?
Ora che sai, cosa ne fai di questa informazione?
Perché, per favore, non cominciare a piangere o a sbuffare pensando che “tanto ormai è così e non c'è niente da fare”. Questa non è la versione emotiva della medicina, è la realtà cruda e spietata. Non basta indignarsi. Perché indignarsi è facile, fa sentire meglio, ma non cambia nulla.
La prossima volta che entri dal medico, guardalo bene negli occhi e chiediti: sta ascoltando davvero il mio corpo o sta solo applicando un protocollo che è stato scritto per qualcun altro? Sta vedendo una persona con una storia, un corpo che ha bisogno di attenzione, di cura, di ascolto, o sta semplicemente eseguendo un copione che non tiene conto di chi sei, da dove vieni, cosa hai vissuto?
Perché se tu sei una donna, se sei una persona nera, trans, asiatica, queer, il tuo corpo non è mai stato considerato un prototipo per i test, per la ricerca, per le linee guida.
Se sei una di queste, il tuo corpo è un esperimento di serie B. Come lo sai? Perché lo abbiamo visto mille volte: dal dolore ignorato, alla diagnosi sbagliata, al trattamento sottovalutato. E tu, invece di chiedere aiuto, ti ritrovi a mendicare una cura che non esiste. È il sistema che ti ignora. Non è il tuo corpo.
Se sei un medico, chiediti questo:
I tuoi pazienti neri ricevono lo stesso trattamento dei pazienti bianchi? Lo stesso dolore, la stessa diagnosi, la stessa cura? O ti trovi ad applicare, senza nemmeno pensarci, quel vecchio, maledetto pregiudizio che vede il corpo nero come un corpo che “regge di più”? Se stai trattando una donna, riconosci il suo dolore, o lo minimizzi come una semplice “questione ormonale”? E le persone trans, le trattiamo con le stesse attenzioni, con lo stesso rispetto per le loro specificità, o continuiamo a ignorarle come se fossero una categoria da rivedere più tardi, quando avremo tempo per capire come trattarle davvero?
E se sei un essere umano (e spero tu lo sia), fai delle domande. Pretendi delle risposte. Perché è proprio questo che dovremmo fare tutti: interrogarci sul sistema che ci cura e chiederci chi sta fuori da questo sistema. La medicina ha bisogno di essere riscritta, completamente. Ha bisogno di essere riscritta perché fino ad oggi ha curato solo alcuni corpi. I corpi bianchi, etero, cis, maschili. E tutti gli altri, quelli che non rientrano in quella ristretta definizione di "esseri umani", sono stati lasciati a morire nel silenzio. Lì dove il sistema non li vede, non li sente, non li cura.
E ora lo sai. Ora lo sai, e se resti zitto, se non fai nulla, diventi parte di quel sistema. Se non chiedi mai come mai il corpo di tua sorella, di tua madre, della tua amica, del tuo compagno o della tua compagna, della persona trans che conosci, non viene trattato con la stessa urgenza di un corpo bianco, sei complice. E se sei un medico, se ti basta la formula "è tutto nella sua testa" o "sono le sue emozioni a parlare" per giustificare un trattamento superficiale, e non ti alzi per cambiare le cose, hai tradito la fiducia di chi ti ha affidato la sua salute.
Perché adesso lo sai: il nostro sistema sanitario è disegnato su un corpo che non esiste più. È un corpo ideato, fabbricato, costruito secondo gli stereotipi, le premesse e le dinamiche di un mondo che ha ridotto tutto a una questione di colore, genere e appartenenza. E questo è criminale, non perché siamo sentimentali, ma perché sta mettendo a rischio la vita delle persone, oggi. Ogni giorno.
Non aspettare che qualcuno faccia qualcosa per te. Se non cominci a fare domande, siamo tuttə perduti. Perché se restiamo in silenzio, se lasciamo tutto come sta, stiamo permettendo che questo sistema continui a uccidere, a ignorare, a disumanizzare. Ogni volta che ti siedi in quella sala d'attesa e pensi che il problema sia tuo, che non ti ascoltano perché sei esagerata, chiediti: chi ha scritto quella diagnosi? Chi ha scritto il protocollo? Cosa sta dicendo davvero di me, della mia pelle, della mia storia? E chi non mi ha ancora visto?
Quindi, fai domande. Pretendi che il corpo di tua madre, di tua sorella, di tuo fratello, di chiunque ami, venga visto per quello che è: un corpo che merita attenzione, che merita cura, che merita ascolto. Non è un corpo che deve essere ridotto a una formula, un corpo che deve seguire il modello di qualcun altro, qualcun altro che non sei tu. La medicina, se vuole davvero essere medicina, deve riscriversi. Perché fino ad oggi ha trattato alcuni corpi come se fossero il modello, mentre gli altri sono stati ignorati, uccisi.